PRESENTAZIONE
Il manoscritto originario è stato dattiloscritto una prima volta nel 1965, e successivamente immesso mediante scanner su computer e revisionato per una definitiva sistemazione. La trascrizione è del tutto fedele all'originale manoscritto, salvo limitati tagli alle parti di difficile lettura.
La scrittura del diario fu l’unica opera letteraria di Dino Piazza e preannuncia nella descrizione dei paesaggi la personalità pittorica che si sarebbe poi manifestata. Una sola fra le sue opere pittoriche(Soldati) fa riferimento alle sue giovanili esperienze di guerra, che, comprensibilmente, desiderava rimuovere dai suoi ricordi.
A distanza di tempo di cinque anni scrivo queste note sul mio periodo trascorso in guerra. Forse, un giorno, queste potranno interessarmi.
Fu durante la ritirata italiana del 1917 che volli partire per il fronte. Io avevo allora 18 anni. La nazione tentava in quei giorni ogni sforzo per frenare l’offensiva austro-tedesca. Masse di truppe italiane e straniere venivano spedite in fretta verso le linee di battaglia. Iscritto il giorno prima della partenza in una batteria sneider da 105 da campagna feci in poche ore i miei preparativi. Fui costretto a pescare nelle scuderie della 97a la mia cavalcatura fra le ultime rimaste e nell’oscurità scelsi un grosso cavallo quadrato e lento come un matematico di professione; gli diedi dello zucchero e lo chiamai "Bellerofonte" ma queste due cortesie non gli fecero cambiare l’andatura. La mia uscita in cortile sul burocratico puro-sangue fu causa di una certa allegria. Non ebbi tempo di salutare Casale la bionda. Alla fine d'una giornata d'autunno la mia batteria partì dalla cittadina di Casal Monferrato sede di un importante deposito di reclute. I soldati da qualche giorno si erano accorti che qualcosa di nuovo doveva loro accadere. Ad ogni modo l'evento riuscì inaspettato. Mezz'ora prima di scendere alle cucine furono chiamati in magazzino. Le voci concitate dei sergenti costrinsero a gruppi gli uomini ad ordinarsi presso cataste di uniformi e di arnesi che furono in fretta distribuiti. Ciascuno s'ebbe una montagna di roba da portare addosso e da caricare sul suo cavallo. Cappotti da trincea biancheria, maglie, passamontagna, pale e piccozze, e infine furono distribuiti gli elmi d'acciaio.
Dopo il rancio l'ordine di sellare e l'adunata nel cortile. Il comandante Lazzarini fece per l'occasione un breve discorso. Lazzarini era "un bell'ufficiale di guerra" secondo la dizione comune di quel tempo. Sepolto dalle macerie del castello di Gorizia e non ancora guarito dalle ferite riportate aveva voluto ripartire per la linea. Il discorso non lo ricordo con esattezza, ma ad ogni modo l'argomento principale era questo: non si doveva schiamazzare, non gridare per nessuna ragione, né darsi a manifestazioni di giubilo o di dispiacere perché il Paese stava subendo dei rovesci ed era in lutto. Prometteva inoltre delle bastonate a chi avesse avuto l'ardire di scendere nelle stazioni e di trasgredire ai suoi ordini. Questo il succo dell'allocuzione di Lazzarini. Io non la trovai cortese almeno nei miei riguardi. Esaudita quella sera la mia terza richiesta di partire da quell'inferno urlante e poco odoroso delle reclute non avrei proprio trasgredito a nessun ordine, specie poi a quelli di Lazzarini, così bello e fiero, dritto sul suo cavallo di razza che egli guidava così facilmente. Io credo che nessuno di noi fosse infine addolorato per quel che stava succedendo. Eravamo tutti molto giovani, io in particolare avevo un anno di meno di tutti gli altri. Il deposito non era un paradiso di delizie. Stipati in dieci o dodicimila in una caserma immensa ma tutt'al più capace di contenere un reggimento, tenuti in piedi e qualche volta tenuti a sedere da un rancio perfido che provocava molti casi di dissenteria, obbligati a fare la scuola a piedi e il brusca e striglia per molte ore del giorno sotto un sole di fiamma ed a passare la notte in novecento entro una stalla combattendo contro miriadi di pulci, vedevamo infine all'orizzonte una novità… la vita del fronte. Quando si hanno diciotto anni le novità attirano con violenza.
Al deposito infine eravamo alla merce’ della tirannia del caporale o del sergente. In batteria mobilitata si poteva essere più a contatto con l'ufficiale, un superiore sempre, ma di aspetto migliore, meglio vestito, non male odorante.
Forse anche per questo dal nostro fiero quadrato di cavalli e di cannoni guardai con commiserazione le reclute che restavano, i miei compagni cacciatori di pulci, amici della libera uscita. Fra questi un napoletanello, un vero scugnizzo, si agitava come un ossesso gridando il mio nome. Il povero ragazzo aveva fatto miracoli nell'aiutarmi ad insellare in fretta ed a stringermi indosso tutte le mie robe. Ora gridava non so che al mio indirizzo e gli occhi nerissimi scintillavano tra le giubbe di tela grigia dei compagni.
Ad uno squillo di tromba la batteria si mise in moto. Traversammo Casal Monferrato nelle prime ore della sera, in un silenzio pesante rotto solo dal sordo rotolio del reparto in moto al gran trotto. Giunti alla stazione caricammo pezzi e cavalli, e a notte tarda lasciamo Casale la bionda, con i suoi giardini giallo oro, le sue donne e il suo vino più biondo, riposare sulle rive del Po silenziosa, correndo nell’oscurità verso il nostro nuovo destino.
* * *
Dormii e sognai fra le zampe di otto cavalli bianchi, irrequieti, per l’intera notte. All’alba correvamo attraverso le pianure della Lombardia dalle quali saliva nebbia densa. L’aria era fredda e pungente; i primi raggi del sole colpivano le rugiade, pepite d’oro sparse nelle risaie. La campagna piana, silenziosa, infinita, vestita di vapori ondanti dalla terra umida, satura. Fui costretto a cantare.
“O fresc’aure mormoranti sui prati…”
Era di prammatica. Del resto l’aver messo in atto rapidamente la mia decisione m’aveva dato un senso d’ebbrezza completa e grata che gli zoccoli dei cavalli e l’odor cattivo dello stabbio non avevano attenuato.
Quasi avevo dimenticato Cuomo lo scugnizzo napoletano nero come la pece e agile come l’acquaiolo di Gemito che m’aveva urlato poche ore prima dall’alto del suo cavallo: “Ne dimme nu poco, ti va pa’ gloria. I’ te vedo muorto e sient’a gente ch’a dice: "Ah! chillu povero fesso!!!”
* * *
Giungemmo a Vicenza dopo due notti e una giornata di viaggio senza aver mai potuto scendere dai carri. Ebbi la fortuna di vedermi rubare "Bellerofonte". Lo insellò un altro. Mi presi in cambio una bella baia alta, magra. Entrammo nella città al passo in colonna con truppe di diverse armi dagli arnesi nuovi dirette alla linea. La città del Palladio si svegliava nel nebbione gelato; i negozi protetti da sacchi a terra dalle bombe degli aerei cominciavano ad aprirsi allora. Pochi cittadini si fermavano a guardarci. In viso avevano quella stessa tristezza maledetta che avevo notato a Casale, a Milano, a Peschiera dovunque, dovunque. Il marchio della sconfitta impresso sul viso della nazione. Che significava altrimenti quello sguardo angoscioso, quello stupimento muto? Passavano i pezzi, i cavalieri, passavano i fanti tutti commisti in una enorme colonna grigia, sparsa di ferri senza vampe, a passo lento, con un rumore di temporale lontano. Rotolavamo noi forse nella fornace della linea senza un’ala di speranza?
Lontano dall’ampia cerchia delle Alpi ci giungevano dei tuoni lugubri lunghi. Il cannone. Ai lati della strada alpini francesi scavavano trincee con dei moti ritmici da becchini consumati. Vicenza doveva esser presa si diceva entro poche ore. Si diceva che l’altopiano non avrebbe retto all’urto. Vorrei far comprendere tutta la cupa disperazione del nostro primo ingresso in quella città che viveva sotto il fantasma della sconfitta. Non un grido, non un addio, non un comando squillante. Il rotolio dei cannoni, il cigolio delle ruote, il rumore degli zoccoli ferrati sul selciato, lo scalpitare dei fanti. L’enorme colonna si snodava nella città ad una andatura da funerale. Qualche finestra si apriva, appariva una faccia triste che si ritirava dopo un solo sguardo. Eravamo noi dannati prima d’incominciare? Stanchi come possono essere degli uomini che per due giorni e due notti avevano viaggiato sul carro bestiame con i loro cavalli che a tratti si imbizzarrivano, calciavano contro le pareti e battevano la testa contro il tetto del vagone, seguivamo il capitano nella marcia lenta attraverso Vicenza che come si diceva avrebbe dovuto di lì a poco presa dal nemico. Pure, la nostra formazione di batteria, con quel suo rumore minaccioso di ferraglie chiusa e ordinata, la nostra gente così cupa e risoluta, l'aspetto del reparto, come al dice in stile militare "saldamente inquadrato", mi dava la certezza che non saremmo stati travolti tanto facilmente.
Si fece pied’a terra nella caserma del 2° da montagna. L’aria forte e serena di quei confratelli alpini c’infuse un senso di sicurezza maggiore. Nella spianata di Porta S. Bortolo vedemmo dei reggimenti marciare verso la linea con musica e bandiera in testa. Dall’Altopiano di Asiago la musica ferma dei cannoni indicava che lassù si reggeva ancora... (segue)