Ho davanti agli occhi e considero con ammirazione il ritratto intenso e lieve che Dino Piazza dedicò appena quarantenne a sua figlia Elena, dell’età di sei anni, quando l’Italia era in procinto di entrare in guerra, se non vi era da poco già entrata. Una piccola e preziosa figurazione che rivela l’impronta di una compiuta maturazione espressiva. Mi sembra una esecuzione eccellente. Una prova esemplare per la schietta semplicità con cui il dipinto riassume il modo d’essere e sentire di un artista che cercò di figurare il profilo di un mondo sospeso tra ideale e reale, nutrito di armoniche corrispondenze a immagine e somiglianza della sua vita interiore.
Nell’amorevole resa dipinta di quella fisionomia familiare tanto veridica quanto incantata nella sua infanzia intoccabile non sembrano quasi trasparire nemmeno per allusione le tensioni drammatiche dell’ora -la guerra incombente con i suoi flagelli- che non poco dovevano turbare l’animo dell’autore.
Ma la pittura viene in soccorso contro ogni turbamento ed è come se Dino Piazza volesse opporre un diaframma protettivo grazie al lievito della forma colore, dare un equilibrio alle armonie interiori, scosse dall’incalzare imminente della “tempesta europea”: opzione umana, fin troppo umana, che si lega ad una vocazione fatta di amore per le forme e nutrita dalla percezione visiva di corrispondenti essenze vitali.
Proprio in questo delicato frangente di vita vissuta e di rovello estetico la misura poetica di Dino Piazza rivela l’accento di una precisa “maniera di vedere”: perché esalta la tendenza sorgiva di un pittore ad esprimere in forma sintetica il più delicato cromatismo assieme al concentrato delle sue emozioni. Questa inclinazione a condensare le suggestioni del mondo esterno nell’ordito di una favola di linee e colori lo guiderà nel tempo per diverse prove del suo viaggio intorno alla pittura, così minuzioso, dettagliato, descrittivo e individuato, nel passaggio da una narratività familiare ad una propensione sempre più tesa ad intelaiare l’immagine come una “icona arabescata”.
Torniamo al dipinto della piccola Elena. La figuretta guarda a braccia distese, tutta occhi e zigomi sporgenti, col casco dei capelli affusolati a trecce poggiate sulla bianca camiciola (un nastro blu la stringe sul seno) acconciata sotto una gonnella arancione con le bretelline passanti attorno le spalle: l’occhio della bambina osserva, richiama l’attenzione, emettendo i suoi riflessi neri e azzurri; i riccioli si snodano accomodati al bordo delle gote e il volto è acceso a mezza luce, mentre l’azzurro chiaro dello sfondo sigilla un accordo col carminio di un fiocco appuntato sulla chioma.
Un sentimento accurato della pasta pittorica sorregge la trama compositiva ed una mestica semplificata raffigura l’oggetto indotto dal colore nel tratto che suddivide le parti distinte di luce ed ombra, offrendo una visione che sfarina il reale in una aureola incantata.
Questo effetto lirico è ricercato con i puri valori estetici della pittura... (segue)
Dino Piazza è un versatile interprete di sentimenti tradotti in pittura con una tavolozza armonica, dove eccelle la qualità compositiva. Un esteta che abbraccia vari percorsi, richiamando frequentemente le correnti pittoriche dell'arte novecentesca nell'ambito di espressioni figurative che possono svariare dai canoni tradizionali dei vedutisti del paesaggio a richiami impressionisti nell'esposizione di tematiche riguardanti la figura femminile e le immagini floreali.
Una classe sopraffina pervade le sue opere, che denotano il tocco coloristico geniale dell'artista ispirato, che fa vivere la forma tramite il cromatismo, e rivela la sua qualità pittorica nella esternazione di un animo sensibile, pronto a cogliere con grande proprietà di linguaggio sfaccettature di immagini intimiste, regalando al fruitore una sequela di atmosfere avvolte in un alone misterioso, quasi a indurre alla riflessione sugli aspetti reconditi di stati d'animo che vivono il substrato dell'inconscio.
L'arte di Dino Piazza è spontanea manifestazione del suo tratto psicologico, che presenta tendenzialmente risvolti malinconici, ma al tempo stesso sa assemblare con efficaci cromatismi il senso stesso della vita e traslare la malinconia in positività. L'artista raccoglie nel suo tempo forti consensi della critica e allaccia rapporti amicali con maestri importanti sia per le sue doti artistiche, sia per il carattere affabile e comunicativo.
Il suo percorso, iniziato con la passione per la fotografia, mostra varie impostazioni pittoriche elaborate in successione con coerenza, attraverso un lavoro di ricerca che coinvolge e stimola l'artista, consentendo una maturazione e una completezza di espressione che va a definire una cifra stilistica di altissimo livello.
Nella produzione dei suoi ultimi anni Dino Piazza tralascia spesso i canoni della figurazione, e pur partendo da un concetto appartenente alla realtà, lo rielabora in opere astratte di notevole qualità compositiva, dove emerge la luminosità, la ricercata ed elegante stesura del colore e quell'armonia globale che contraddistingue l'artista e lo rende un protagonista assoluto nel panorama artistico del suo tempo.
Dino Piazza tramanda a futura memoria un arte ricca di elementi tematici e compositivi di grande valenza estetica e simbolica, esaltando una sensibilità artistica rivelata in tutte le tappe del suo percorso.
Signore e signori, amici…, Buonasera. Questa sera la Galleria “Il Mondo dell’Arte”, in Palazzo Margutta di Roma, si pregia di presentare una rassegna Antologica del pittore Dino Piazza, un artista capitolino che ha onorato la nostra città.
La mostra antologica intitolata: “Disegni e pitture di Dino Piazza”, costituisce una raccolta sistematica di tutti i disegni e dipinti prodotti dal maestro nel periodo che va dal 1940 al 1953. Questo perché l’artista è stato, in quel tempo, uno dei maggiori interpreti dell’arte capitolina.
Alcuni lo ritengono un pittore-narratore, avventuroso e nostalgico del primo Novecento, ovvero un artista che dipinge con uno stile modulato.... da contaminazioni stilistiche e sussulti creativi. Sono solo parzialmente d’accordo,…….. a mio parere, si tratta di un singolare artista italiano che vive gli ultimi epigoni della Scuola Romana, quelle di Mafai, Scipione, Quaglia, Rafael e soprattutto Mazzacurati, con il quale ha avto rapporti di lavoro e di sincera amicizia. La “Scuola Romana” degli anni ’30, come sapete, è stata una Scuola dai colori tonali, con contaminazioni espressioniste……, che ha operato per alcuni versi anche all’aperto e dal vero, in particolare quando doveva riprendere “le demolizioni” della nuova Roma di Mussolini.
Nei dipinti diversificati del maestro Piazza, possiamo notare, inoltre, rimandi alle composizioni di Magritte, Van Gogh, Picasso, Paul Klee, Kandinskij, Modigliani, ma anche Guttuso e Sante Monachesi, quest’ultimo caposcuola della corrente novecentista romana, denominata “Arte AGRA” (arte-avigrazionale). Artista che io ho conosciuto negli anni Ottanta.
Dipinti del Piazza, che si riverberano, come scrive su Internet, la giornalista Pacchiani, nel mondo perduto di Paul Cezanne e di Marcel Proust. Un mondo che potete rivedere attraverso la visione di suggestivi acquerelli, disegni a china e dipinti a olio. Una pittura stesa a campiture omogenee, con una spatolata lunga, materica e nervosa, trasognata da macchie e bagliori..
Il suo percorso artistico era iniziato nel 1939 in Roma, proprio qui in Via Margutta, dove ottenne il suo primo successo di critica e di pubblico. Sito culturale capitolino Via Margutta, dove ha continuato ad esporre anche durante il periodo bellico.
I temi preferiti dal pittore Dino Piazza spaziano dai ritratti di donna, ai paesaggi delle città, alle vedute, alle marine tirreniche con ombrelloni, ma anche fiori e nature morte. Quindi un pittore versatile/creativo.
A mio parere, le opere più intriganti, sono quelle che raffigurano i nudi femminili, dove i corpi delle giovani, sono pregni di una materia graffiante, calda e raffinata. Sono nudi raffinati, veri, in cui possiamo scorgere una armonia ideale…quella in cui si configura la bellezza dell’ ”Eterno femminino”.
Opere composte di colori eccezionali, modellati da cromie di giallo e verdi….., resi vibranti da tonalità di rosa e giallo-orange.
A questo periodo appartengono anche i quadri dedicati alla figura della “Baiadera” e della “Donna in fiore”,…. ritratti struggenti, raffiguranti una femminilità sensuale ed accattivante.
Tra il 1948 e il 1953, Dino Piazza, modifica completamente il suo percorso artistico; cambiando i riferimenti espressivi…, si rivolge a temi informali e irrituali, ed anche le figure sono meno riconoscibili e i colori sono più freddi.
Evidentemente, sente il peso degli anni e l’ineluttabilità della vita, pensa che tra non molto dovrà lasciare il mondo visionario di Via Margutta… i suoi amici pittori…, la sua famiglia. La vecchietta, lo coglierà serenamente nel 1953.
Ad onore della sua memoria, da ricordare che nel 1969, la giuria della “Quinta Biennale dell’Umorismo di Roma”, gli ha assegnato un riconoscimento postumo. Un premio ambito da molti pittori, costituito da un “Diploma d’Arte” e da una “Medaglia d’Oro” per il suo cursus honoris, riferendo alla storia e all’arte italiana, che: “ Dino Piazza è stato un pittore con una forte vena umoristica, tale da consentirgli di relazionarsi con l’Arte figurativa, con gli amici, ma anche con il mondo che lo circondava.
Mi è doveroso ricordare che Dino Piazza, era un pittore molto colto e raffinato. Al tempo, ha avuto frequentazioni amicali con personaggi della cultura, giornalisti e critici d’arte, tra questi, Giovanni Omiccioli, Avenali, Savelli, Berenice, Tony Bonavita e l’amico di sempre Marino Mazzacurati, noto esponente della Scuola Romana degli anni Trenta, passato alla storia come il pittore delle demolizioni. Oggi… Io, Noi, forse, … ci meravigliamo di come sia stato possibile che un pittore di tale vena espressiva/ creativa, non abbia avuto il successo che meritava al suo tempo, e quindi figurare tra i grandi. Ci auguriamo che questa sera i familiari possano “riferire”, al loro congiunto che, finalmente i collezionisti romani gli hanno riconosciuto l’onore di rappresentare gli ultimi epigoni/sussulti della vera Scuola Romana degli anni ’30. Buonasera e grazie per avermi ascoltato.
(trascrizione di intervista alla inaugurazione della mostra)
Questo catalogo è la storia di Dino Piazza, un artista che è stato vicino al gruppo della "Scuola Romana" (che è cominciato con Mafai, con Mazzacurati e con tanti altri) e ha assimilato da autodidatta qual'era quella cultura fatta di grafismo, di amore per il colore, di amore per le cose viste, che con una grande intensità ha trasmesso nella sua opera. Purtroppo è scomparso prematuramente oltre cinquant'anni fa e pur essendo stato amato a suo tempo e riconosciuto da artisti, critici e galleristi è rimasto come dimenticato, come sepolto.
La riscoperta dei suoi quadri oggi è proprio questa fresca novità; hanno questo sapore di fresca novità, che ci fa rivedere una Roma piena di colori e di luci. E per questo vale la pena di guardarlo e di leggerlo questo catalogo che racconta tutta questa sua avventura breve ma intensa.
La pittura di Dino Piazza scandaglia senza remore o timori l’animo umano, che diventa protagonista assoluto del suo percorso artistico. Attraverso il filtro della sua pittura, infatti, trascende qualunque sentimento oggettivo, sia felicità che dramma, e ricrea sulla tela un linguaggio che raggiunge alti vertici di poeticità, disegnando e tracciando un mondo onirico, a volte favolistico. Con un abbraccio pittorico avvicina e sente la collettività intera, restituendo sulla tela una umanità intensa. Una osmosi continua e fluida di poeticità che attraverso la narrazione, superando molteplici contrasti linguistici, partecipa affettuosamente alla realtà.
La pittura per Piazza non fu un “mestiere”, ma una scelta elitaria che, nel giudizio espresso da Paolo Brunori ne “Il Tempo”, “gli consentì di esprimere la propria vera natura, in un momento in cui la guerra sembrava annientare ogni facoltà propriamente umana, il rifugio in un mondo delicato, ameno e coraggioso a un tempo, un capriccio di ombre del passato, un gioco quasi fortuito, legati insieme e tenuti tra loro da un valzer di colori guidato con maestria da un medesimo sentimento di significato e di libertà”.
Ogni opera parla della precedente e preannuncia gli spunti della seguente. Così la tecnica fotografica a cui Dino Piazza approccia agli inizi degli anni Trenta, preannuncia la scoperta della pittura.. (segue)
(trascrizione di parte del discorso di presentazione della tesi di Francesca Romana Cavallo su Dino Piazza)
La tesi parla di un artista praticamente inedito, comunque bibliograficamente scarsamente conosciuto dalla critica, che si è rivelato di grande interesse, in quanto, vissuto tra il 1899 e il 1953, ha cominciato a lavorare negli anni '30 nell'ambito della cosiddetta "Scuola Romana", nell'ambito della "grande fronda" antifascista che caratterizza questa scuola, e poi, a seguito di quest'esperienza, nel secondo dopoguerra.
Proprio Mazzacurati, l'artista che scopre negli anni '30 la propria identità politica e culturale nel clima della dittatura (del quale artista sono presenti disegni e bronzetti nella collezione di Piazza) scopre le qualità di questo autore, di questo artista complesso. Artista di grande qualità di cui la candidata sottolinea la qualità post-vangoghiana del colore, rivela il gusto sostanzialmente espressionista, l'elemento rivelatorio del colore e del segno. Vi ricordo che "barocco" ed "espressionismo" erano proibiti dalla dittatura, come motivi che potevano far distrarre...
Dino Piazza è artista di famiglia mista, padre ebreo, madre cattolica, commercianti, lui, ingegnere, che per le possibilità della libertà economica può portare avanti i suoi studi. È personaggio di grande interesse in quanto è intellettuale colto, personaggio gaddiano, in qualche modo, anche se il pensiero e la scrittura non sono simili...
Ha lasciato un bellissimo diario di guerra, ed ha operato facendo della sua casa il luogo di ritrovo di alcuni dei più importanti artisti – cosa che noi non sapevamo, pur avendo studiato a fondo l'entourage di Mazzacurati e Tot.
La candidata ha dovuto, attraverso un lavoro analitico, ricostruire la datazione in base a poche opere datate, ricostruire i diversi periodi, e ha fatto inoltre il catalogo completo dell'opera (quadri, acquerelli sia su carta che su tavola, alcune tele, disegni), ha avviato una ricerca sul pensiero, una valutazione dell'opera...Ottimo lavoro completo che si presta ad ulteriori studi da parte della candidata; lavoro di grande interesse, che, nella forma in cui è presentato potrebbe già essere pubblicato.
La prima mostra di pittura per dopolavoristi al "Lucio Bazzani" ... Italo Piazza sforza il colore nel suo quadro "Gradioli alla finestra" per farlo diventare luce. Anche questo pittore esula dalla cultura del dilettante, ma invade con la sua sensibilità artistica altri mondi che non sono permessi naturalmente a certi primizi ...
"La troppa luce si fa quasi nera". La violenza del messaggio sgretola le pareti, rosicchia gli angoli delle pietre, appiattisce sotto l'afa qualunque sfumatura e lascia i colori puri dilagare e combattersi lo spazio che il calore prepotente scoperchia. Una tragedia muta e impassibile nasce da quel trionfo del carro di Febo, e le mille trombe levate non un canto ma il silenzio producono. Questo pathos sembra il tema essenziale di Italo Dino pittore. Egli non si diletta di passaggi squisiti e di chiaroscuri, ma si prova al gioco franco e terribile dell'accostamento di colori in tutta la loro vivezza; e il colore, a volte, mangia la forma della quale rimane l'accenno di oggetti e personaggi d'una realtà sognata.
Dino non è un giovanissimo pittore, quantunque abbia esposto poco e lavorato per molti anni in silenzio. Una sua natura morta, presentata nell'ultima quadriennale romana, rivelò a lui stesso la sua maturità. L'arte di Van Gogh e le strisce di Matisse che un giorno avevano svegliato in quell'artista la voglia di dipingere, e in seguito le geometriche trovate dei cubisti e dei futuristi, sono influenze dalle quali è andato poco a poco discostandosi per acquisire un linguaggio proprio con il quale ci sembra venga avanti a dire una parola nuova.
Ed ecco che scendiamo per un atterraggio di fortuna sulla campagna, aperta come un libro, che rapidamente si avvicina al nostro sguardo al di là degli olmi; ecco bagnanti incastonate negli azzurri e i bianchi di Capri, ... ecco la sintesi delle scalinate positanesi ed una natura morta di frutta, preziosa e precisa, che contrasta con la composizione quasi surrealista d'un vaso voluttuoso e viscido.
Una forza segreta anima questo linguaggio; un'angoscia concentrata, persino incubosa, sta per librarsi da queste figurazioni; un'energia potenziale le carica di un dinamismo contenuto, come avviene per certi idoli. Qualcosa di fatale o meglio qualcosa di "tabù", fa parlare il silenzio solare di queste pitture.
La Margherita ha giusto ieri inaugurato una raccolta esposizione di pittura di Italo Dino, un artista che ama trincerarsi sotto un nome di battaglia, così com'è agitato, curioso nelle esperienze e avventuroso il suo animo. Sulle tele di quest'uomo è passata, lasciando tracce evidenti e non taciute, anzi coraggiosamente denunciate, l'arte rivoluzionaria di Matisse e di Van Gogh: ma i risultati si avvicinano piuttosto (volendo scegliere tra i nostri pittori) ai quadri di Monachesi del periodo più "fauve" e di questi hanno la violenza coloristica, il distacco dalla preoccupazione formale, la pennellata intiera, e decisa; ma insieme si differenziano da quella maniera per una certa ironia mondana che lo spinge a far sorridere le sue modelle emerse dalle matasse dei colori puri come indicazioni allusive e caricaturali. Anche i rari paesaggi, tracciati con voluto fare sprezzante, sembrano frammenti d'un mondo goduto in fretta, portati via dalla velocità della vita moderna. Mondo non ancora risolto in un gusto personale, nella preoccupazione di aggiornarsi troppo rapidamente lasciando indietro, senza avvedersene, una propria visione.
Figuratevi un personaggio di Strindberg che sia stato a scuola da un fachiro, ambientatelo in un grattacielo di vetro, nutritelo di Heine e di Voltaire, laureatelo in ingegneria e fatelo soffrire perennemente di ulcera duodenale. Avete nella sua complessità il pittore Dino Piazza. Che è il più stupefacente risultato di una serie di incroci, innesti e contaminazioni, il più curioso prodotto di una selezione eclettica che si possa trovare nei dintorni di Villa Strohl-Fern.
Alto, magro, astenico, con un volto da protagonista segnato da migliaia di pensieri, sorrisi ed amarezze. Elegante nel gestire clownesco, col passo pesante di Atlante che regge il mondo sul groppone. Si diverte a vedersi vivere, a veder vivere gli altri, ma nessuno conosce la sua vita, quella che è sotto le rughe, dietro i suoi piccoli occhi di elefante in sofferenza. Forse i suoi quadri lo conoscono meglio, le sue tempere che riverberano il mondo perduto di Cezanne e di Proust, il mondo della sua infanzia. Forse Piazza è morto da bambino, ma nessuno se ne è accorto e lui ha continuato a camminare, a dipingere, a sorridere. Il sorriso di Piazza è una cosa crudele, iperborea. Con quel sorriso egli domina la giungla dei fatti e dei drammi umani come un pachiderma ironico, un Tabù. E i suoi quadri sorridono nella stessa maniera.
Storiellina. Un amico di Dino Piazza,il pittore noto per la sua flemma filosofica che lo distingue simpaticamente in quel confino per nevrastenici che è l'ambiente artistico romano, portò un giorno un conoscente ad ammirare certe Tavole che lo avevano entusiasmato in una precedente visita allo studio di Via di Villa Ruffo. Trovò una certa qual aria di restauro, una bella porta nuova, qualche tela e qualche disegno, ma niente Tavole. Finalmente pregò Piazza di tirar fuori quella produzione che probabilmente avrebbe trasformato il visitatore in acquirente. "Le Tavole? – disse calmo Dino – Eccole là, mi servivano dei pannelli per la porta e quelle erano di misura giusta".
Ci sono uomini che nascono col destino di essere amici, e quadri che vivono subito, dalla prima pennellata, con la grazia di piacere. Dino Piazza, in assenza del quale, ma non a sua insaputa, abbiamo allestito questa sua seconda mostra personale (la prima fu alla Margherita, nel 1948) era un uomo di questi, generoso, ironico, indulgente; così i suoi quadri hanno di lui e del suo carattere la spigliata freschezza del calembour, elaborati da una cultura civile e, ciò che in arte più conta, da una straordinaria dotazione tecnica.
Che egli non abbia fatto la carriera del pittore, che i suoi interessi quotidiani non gli abbiano consentito la veste del professionista, non ha importanza, per noi soprattutto che lo vediamo vivere nell'attenzione di ogni fatto e avvenimento della pittura contemporanea, né per coloro che dalle sue opere avranno l'esatta misura di una personalità artistica eccezionale quanto affascinante.
Molti di questi quadri non li vedremo più; sono in America e in Francia, e uno dei più bei ritratti fu acquistato nella scorsa quadriennale, ma questi che sono restati bastano. La sua vena di narratore (riteneva inutile dipingere se non per raccontare qualcosa) si diffondeva nei più disparati interessi umani. Avventuroso e curioso, allo stesso tempo incontentabile, si avvicinava alle cose, ma più alle persone, con partecipazione affettuosa della loro realtà, e nello stesso tempo con la lucidità fatale di un clinico. Non lo si poteva ingannare, o corrompere. La vita degli altri, l'anima e la forma dei suoi personaggi, gli passava tra i pennelli come attraverso un infallibile filtro. Là dove erano i cieli, o la tenerezza di un fiore, o l'arsa purezza della terra, i colori restavano limpidi, essenziali. Sugli uomini, pur amandoli e restandone continuamente preso d'amicizia, di fraternità, i colori s'addensavano in rapidi impasti, in contrasti cruenti tra tono e tono, come la lunga sofferenza di un breve amore.
Questa lunga sofferenza ce l'ha lasciata, oltre i suoi quadri, andandosene due anni fa, insieme al ricordo del suo sorriso e della sua voce. Possiamo consegnare a quelli che non l'hanno conosciuto soltanto questi quadri, parte di lui, tenendo per noi quello che può rimanere soltanto nostro, e per sempre.
Con le opere rimaste del pittore Dino Piazza, scomparso lo scorso anno, la Galleria «L'Asterisco», ha composto nelle sale eleganti e luminose della sua sede in Via Vittoria una mostra che suscita l'interesse e l'ammirazione dei visitatori.
Ugo Moretti, nella sua presentazione inserita nel catalogo, ricorda il successo che ebbe la prima mostra personale di questo artista nel 1948 a Roma nella Galleria «La Margherita» ed accenna alla sua vena di narratore dal temperamento avventuroso e curioso e, nello stesso tempo, incontentabile. Nei suoi quadri, alcuni dei quali sono parte di collezioni pubbliche e private, Dino Piazza si dimostra un impressionista che si esprime con tecnica larga e riassuntiva osservando il vero con fine penetrazione dei caratteri dei diversi personaggi della composizione pittorica tracciata rapidamente tenendo calcolo dell'essenziale e non del particolare. Sono qui esposti ritratti, composizioni figurative, fiori, figure isolate, tutte opere che ben fanno presente la sensibilità e il valore d'un pittore geniale e personale.
Una mostra molto bella, che avrebbe senza dubbio costituito oggetto di notevole interesse nel gruppo delle retrospettive organizzate dalla VII Quadriennale, si è chiusa giorni fa alla galleria de «L'Asterisco» del compianto pittore DINO PIAZZA. Ricordiamo di lui a «La Margherita» una spiritosa personale (1948); questa, di ora, presentata con solidale amore da Ugo Moretti, è assai felice: gruppi di famiglia, carrozzelle, mendicanti, zingare e baiadere, arlecchini, su fondi verde lattuga, decalcomanie di una mente fantastica, gentili e precise. Ora decorativo, ora lirico, ora viaggiatore nel mondo delle sensazioni, Dino Piazza seppe ridurre al comun denominatore del suo entusiasmo, della sua fiducia di vivere, ciascun quadro; sia che dipingesse in piccole dimensioni, come suonando sinfonie su un filo d'erba, sia che tuffasse volti e cose in mari azzurrini, come i cieli di Van Gogh, quand'era sereno. Triste destino morire prima di avere detto tutto; ma anche il poco che Piazza ci ha lasciato non è dono effimero.
Opportuna la mostra retrospettiva di Dino Piazza alla S. Sebastianello: vi sono raccolte molte delle sue intelligenti prove pittoriche che meritavano d'essere meglio conosciute ed apprezzate: c'è dentro una sensibilità viva e pronta talvolta quasi dolorosa che ancor più ci fa rimpiangere l'amico scomparso cinque anni fa.
Questa mostra retrospettiva del pittore Dino Piazza assume aspetto d'importanza perché, oltre a dare nuova voce a un annoso discorso che vorrebbe concludere sulla dimostrabile efficienza di certa nostra pittura figurativa, mette a fuoco la figura e la posizione di un artista il quale, nei pochi anni di vita concessi all'arte, ha lavorato e prodotto in piena umiltà quasi lasciando a postume considerazioni il valore e il simbolo del suo impegno espressivo.
A cinque anni dalla sua morte, dunque, i lavori del pittore tornano sulle pareti di una galleria, forzando rigide leggi affettive che li volevano reclusi ad altri sguardi ed attenzioni. Ed è bene che moglie e figlia dell'artista si siano lasciate convincere della necessità di far uscire queste cose dal chiuso degli affetti.
Il travaglio creativo di Dino Piazza non si limita a fissare materialmente sulla tela l'occasione di un attimo meramente compositivo, ma va oltre, sino a diventare testimonianza di come la vita possa assumere essenziale significato se misurata e valutata nei suoi contenuti interiori. E l'arte è tale quando travalica i limiti crudamente oggettivi, quando scandaglia, anatomizza la realtà per tradursi in una nuova realtà o meglio in una realtà riscoperta.
Proprio in questo senso ha operato Dino Piazza: scoprendo, attraverso i suoi registri cromatici, l'illeggibilità di una consistenza oggettiva e ricavando da un'apparente squallida rappresentazione i motivi di un'elevata poeticità e gli elementi di un dramma consumato nel più frenato dolore. E se qualche volta egli è sceso all'ironia, ha lasciato sempre affiorare le sottili venature della tristezza quasi a conservare una sua spirituale e sofferta partecipazione alla vita.
Negli impasti regolati dai toni discreti della sua tavolozza (dove peraltro le accensioni bruciano pur sempre in una controllata castigatezza), Dino Piazza è riuscito a materializzare la profondità dei sentimenti umani in un'orchestrazione vibrata e conclusiva, mirando al valore assoluto della forma nella quale il gesto pittorico si è mantenuto vivo e durevole anche per quel contenuto di illimitata essenziale disperata umanità.
Nell'operare di Dino Piazza non esistono, direi, fratture né contrasti perché gli sviluppi ascendono per gradi e arrivano pianamente a una salda coerenza stilistica. Gli assunti formali si orientano decisamente verso un'estetica espressionistica, ma ridimensionata in vibrazioni più pensate, controllate – non marcate e angosciose, quindi – miranti comunque a risolvere una condizione spirituale secondo stabilite intenzioni e concetti lungamente maturati.
Sugli esempi anche della cultura francese tardo-impressionistica, Dino Piazza affina il suo temperamento, tenendo presente la «purificata e essenziale poetica di Matisse», ma non disdegna di guardare a Modigliani: questi continui ripensamenti, curati in un clima di calibrata osservazione, corroborano la sua sensibilità. La sua singolarità creativa, ricca di emozioni fin troppo spontanee che pare nascano da un suggerimento naif, esce invece da un rigore mentale, oltre che dal cuore, si fa sostanza pittorica e vive naturalmente, senza supporti tecnicistici; e la ricerca è millimetrata, quasi inavvertibile; il respiro, sempre ampio.
Così è nata la pittura di Dino Piazza;nei fermenti più vitali di una civiltà pittorica particolarmente europea, coi propositi di un linguaggio soprattutto aderente agli stimoli urgenti di una ricerca non soltanto legata ai valori della pittura.
Dino Piazza firmava i suoi quadri, quasi sempre, con il solo nome: «Dino»; e, parlando della sua pittura, era modesto fino alla ritrosia. Rammento che un giorno, per annunciarmi che andava in vacanza a dipingere, mi disse: "Vado a Capri a fare il vecchio signore con i colori".
Oggi queste delicate immagini di Capri – graffite più che dipinte, su di un fondo interamente azzurro – sono esposte alla San Sebastianello assieme ad altri numerosi quadri dell'amico scomparso, a riportarci il suo sguardo mite e un po' sofferente, a rinverdire in noi il ricordo della sua condiscendente e civilissima umanità. Ma, soprattutto, queste opere ci testimoniano di una autentica vocazione pittorica, educata, con gusto ed intelligenza, attraverso lo studio di Matisse, di Picasso, di Modigliani.
È certamente di Piazza questo ironizzare sottile ed un po' amaro, questo volgere la satira in squisito gioco formale più che in una marcata caratterizzazione espressiva, così come sono doti tutte sue il senso acuto del colore, la originale ed elegante immaginazione della forma, il potere di evocare, di aprire nel piano dello spazio trasparenze e profondità.
Questa di Dino Piazza non è la retrospettiva di un pittore come ce ne possono essere stati tanti nell'ultimo decennio, ma di un artista ricco e sensibile come pochi. Nella Roma neo-realista e cubisteggiante dell'immediato dopoguerra, Piazza seppe conservare un proprio stile, patetico e affabile, vicino alla vita senza retorica, aggiornato senza aridità.
Ci sono degli attimi-periodi nella vita dell'uomo nei quali la natura grida dentro qualche cosa di forte, che ha ancora soltanto implicato un ricordo di umano: un certo sentimento che si produce dentro, che viene proiettato sulle cose che ci circondano e rinviato da queste verso di noi, che ne riceviamo un senso di sproporzione infinita tra la natura, la natura dell'uomo e l'uomo stesso.
E questo non è soltanto stupefacente, ma risveglia oscuramente dei potenziali eroici, vaghi e indeterminati, che ci fanno domandare a noi stessi, confusamente, per quali prove terribili bisognerebbe passare per essere in condizioni di superare questa sproporzione infinita. Finché, per miracolo, la natura viene come inghiottita dall'uomo, nella sua realtà fisica e nella sua realtà spirituale, intendendo con quest'ultima espressione il suo potere interiore di significato. È allora che la bellezza si rivela nel migliore dei modi.
Ma qualche volta questa rivelazione – per colpa di rotture, di angosce, di difficoltà esteriori e interiori – non può avvenire, non può nascere: così si ripiega su se stessa, si congela come un grido nel vuoto, e il miracolo è rimandato. Questo è il caso di Dino Piazza, la cui mostra rievocativa si chiude domani, 17 ottobre, a Tolentino, nell'ambito della riuscitissima «5a Biennale dell'umorismo nell'arte».
Nel 1940, in un momento cioè in cui lo spirito e la grazia sembravano scacciati dalla vita sociale e da quella intellettuale (ossia da tutto ciò che è propriamente umano), avendo consegnato senza rimpianti la supremazia alla materia; in un momento in cui parlare col vicino («Taci, il nemico ti ascolta») poteva essere un pericolo, e gli animi e le coscienze erano ormai presi dal turbine folle della guerra, e quale guerra, ecco Piazza – fino ad allora ingegnere edile – richiudersi in sé e su di sé, orientando la propria vita verso quella libertà dello spirito alla quale anelava, raccontando improvvisamente sulle tele, come in un diario, il suo tempo, il suo sentire, le sue speranze e le sue ambizioni (poche): un vero testamento vivo, attuale, sereno e scherzoso, quasi trilussiano, che ora, a distanza di oltre tre lustri dalla morte dell' Artista, ecco riflettersi, delinearsi e balzar fuori prorompente da quelle discrete tele, che ne hanno conservato il segreto, come una sferzata di ironico champagne e con il sentimento di un autentico cantore.
«Allora il silenzio si chiude su di me, fino al momento in cui Essi mi rivestirono di un nuovo involucro, carne più bianca, più debole, su ossa più fragili e, sotto il dito del tempo, uscii alla luce, di nuovo cantore di una tribù», dice Kipling in "Seven Seas": così l'opera di Dino Piazza è ancor oggi attiva, viva e fremente, e conserva il suo slancio e la sua intenzione, come una freccia appena scagliata.
Si vedano I Saltimbanchi, lo splendido Don Chisciotte, l'etereo Uomo dei Palloncini, la buffissima e satireggiante Scuola: un mondo delicato, ameno e coraggioso a un tempo, un capriccio di ombre del passato, un gioco quasi fortuito, legati insieme e tenuti tra loro da un valzer di colori, guidato con maestria da un medesimo sentimento di significato e di libertà.
È per questo sentimento che Dino Piazza è andato a loro – a questi suoi personaggi – con tanta perseveranza e con tanto ardore nel 1940; è per questo che essi sono venuti a lui, e ora a noi, in amicizia, con complicità e, per così dire, a nudo: vivi e ricchi di lui.
“La sua vena di narratore (riteneva inutile dipingere se non per raccontare qualcosa) si diffondeva nei più disparati interessi umani. Avventuroso e curioso allo stesso tempo incontentabile, si avvicinava alle cose, ma più alle persone, con partecipazione affettuosa della loro realtà, e nello stesso tempo con la lucidità fatale di un clinico”. Descrive così Ugo Moretti il pittore Dino Piazza, nella presentazione al catalogo della mostra alla Galleria l’Asterisco (Roma, 1954). E fu proprio la narrazione che caratterizzò la sua pittura o meglio la narrazione di una ricerca artistica paziente ed elaborata. Una ricerca pittorica così ricca di audaci e ardite sperimentazioni, non tralasciando mai di mettere l’uomo al primo posto. Ed infatti la pittura di Piazza scandaglia, senza remore o timori l’animo umano, che diventa protagonista assoluto del suo percorso artistico. Piazza riesce attraverso il filtro della sua pittura a trascendere qualunque sentimento oggettivo, sia felicità che dramma, ed a ricreare sulla tela un linguaggio che raggiunge alti vertici di poeticità, disegnando e tracciando nel complesso un mondo onirico, a volte favolistico, non suo esclusivo ma che appartiene all’umanità intera. Per la fluidità e coerenza poetica, intesa come superamento dei molteplici contrasti linguistici, la pittura di Piazza ci appare una narrazione continua ed è per questo difficile tracciare una suddivisione periodica, che pur si rende necessaria per un’analisi artistica e metodologica della sua opera.
Ogni opera parla della precedente e preannuncia gli spunti della seguente. Ed è stato forse questo “meccanismo” che ci ha permesso di riconoscere un tracciato cronologico. Il lavoro di ricostruzione “filologica” dell’opera di Piazza è stato oggetto di una tesi di laurea, seguita dalle professoresse Simonetta Lux ed Elisabetta Cristallini, Facoltà di Conservazione dei Beni Culturali, ed ha evidenziato tre periodi pittorici di Piazza che corrispondono a tre fasi significative della sua vita e della sua opera. (segue)
Si chiude mercoledì prossimo, presso il Museo Laboratorio delle Arti Contemporanee dell' Ateneo della Tuscia, la mostra di Dino Piazza, artista romano di chiara fama scomparso nel 1953 del quale l' Università di Viterbo propone una rievocazione, attraverso un'esposizione delle opere pittoriche. Ed è un vero e proprio percorso, dagli esordi alla piena maturità artistica, che è testimonianza di una crescita stilistica di Dino Piazza, la cui produzione è stata di recente argomento di una tesi di laurea di una studentessa della Facoltà di Conservazione dei Beni Culturali (Dr.ssa Francesca Romana Cavallo, ndr). Artista estremamente eclettico, Piazza sembra trarre spunto da un'infinita varietà di tematiche per arrivare alla creazione di uno stile personale che dimostra estrema intuizione nella pittura.
Uno stile originale che esce dagli schemi tradizionali, pur rievocando a tratti la pittura di Van Gogh e, soprattutto, di Matisse, ma anche di Picasso e degli italiani Morandi e Capogrossi. La sua arte è una continua ricerca che parte dallo schizzo, dal disegno, per arrivare all'acquerello, al ritratto, al paesaggio, alle forme astratte. Alcuni dei suoi quadri sono ricchi di spunti ironici, quasi grotteschi.